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Universidad de Pavía
Un poeta estremegno, non ancora studiato in modo soddisfacente, Cristóbal de Mesa, svolse un ruolo di protagonista nella rievocazione di una felice «tertulia» ispanica raccoltasi a Roma verso la fine del Cinquecento intorno alla figura ormai declinante di Torquato Tasso106. Il prestigio di Cristóbal de Mesa deriva non tanto dalla qualità della sua produzione lirica o drammatica o epica, che raramente s’innalza sopra il livello artigianale di un’operazione «mimetica» coscienziosa e canonica, quanto piuttosto dal valore probatorio delle sue testimonianze, che consentono spesso il restauro di parti mancanti entro un affresco storico-letterario dalle vaste dimensioni.
Memorialista preciso, malgrado una tendenza comprensibile a valutare —70→ enfaticamente gli anni trascorsi presso la Curia romana, egli riflette infatti in molti suoi versi, per lo più attraverso un sistema di tenui allusioni indirette, le vicende di un gruppo entusiasta di discepoli che si sforzavano di trasferire ella lingua castigliana i modelli poetici tassiani. L’apparente genericità dei suoi riferimenti e il suo vezzo di evitare le annotazioni realistiche non trovano solo una giustificazione estetica, poiché occorre tener presente che i destinatari delle ricordanze di Mesa sogliono essere gli stessi compagni della brigata giovanile (o almeno i superstiti), attempati ormai, talora anche affermati, e certo non immemori degli avvenimenti menzionati in modo così vago.
Una delle Rimas che C. de Mesa pubblicó a Madrid nel 1611 (apud Alonso Martín) viene appunto dedicata Al Canónigo Pedro Navarrete, Capellán de Su Magestad107. Già il titolo permette d’identificare il personaggio, su cui Mesa riversa la sua nostalgica emozione, con Pedro Fernández de Navarrete, Canonico di Santiago, cappellano e segretario «de Sus Magestades y Altezas», attivo consigliere e statista apprezzato, la cui influenza si estendeva anche fuori della corte per la funzione che ricopriva di «consultor del Santo Oficio de la Inquisición». Nel 1611 egli non aveva ancora pubblicato né i trattati politici né le traduzioni di Seneca, a cui soprattutto è affidata oggi la sua reputazione; ma occupava già una posizione che Cristóbal de Mesa, deluso e scontento, doveva considerare più che ragguardevole, soprattutto in confronto alla propria, che era ormai quella degli infiniti «pretendientes» cortigiani, almeno da quando aveva perduto la protezione del duca di Feria.
Personalità vivace ed acuta, Pedro Fernández de Navarrete viene ancora ricordato come uno dei pochi intellettuali che seppero intuire le cause della decadenza ormai incipiente, e che tentarono d’indicare qualche rimedio, talvolta abbastanza utopistico, ma talora invece assai realistico; infatti si schierò con Juan de Valverde Arrieta, Martín González de Cellorigo, Benito de Peñalosa y Mondragón, Miguel Caxa de Leruela, Sancho de Moncada, Juan Márquez e qualcun altro, nel sostenere la necessità di potenziare le attività agricole della penisola e di frenare l’emigrazione e l’inurbamento dei contadini, per puntellare una economia ormai in sfacelo.
I suoi Discursos políticos apparvero per la prima volta a Barcellona nel —71→ 1621 (apud Sebastián de Cormellas), ma l’edizione più nota delle sue opere è quella madrilena di poco successiva108: Conservación de monarquías y discursos políticos sobre la gran Consulta que el Consejo hizo al Señor Rey don Felipe Tercero, Madrid, Imprenta Real, 1626, varie volte ristampata. La 5ª edizione (Madrid, Tomás Albán, 1805) indude alla fine anche la Carta de Lelio Peregrino a Estanislao Borbio, privado del Rey de Polonia, cioè il trattatello del «perfecto privado» apparso con lo stesso titolo nel 1625 a Madrid (Impr. Real). Dalla 5ª ed. procede il testo più accessibile ai nostri giorni, compreso in una raccolta pregevole: Obras de don Diego de Saavedra y Fajardo y del Licenciado Pedro Fernández Navarrete, Madrid, B.A.E., t. XXV, 1853 (rist. Madrid, 1947), dove appare anche (pp. XIX-XXI) una breve Advertencia introduttiva, con un giudizio critico assai sintetico.
Dalla Imprenta Real madrilena uscirono inoltre, nel 1627, le sue traduzioni dei Siete Libros de L. A. Seneca, che pure conobbero un notevole successo editoriale (Madrid 1629, 1789, 1884, 1929, 1931, 1943, ecc.), e sono ancor oggi disponibili nel volumetto nº 389 della popolare «Colección Austral» (Séneca, Tratados morales). Completano poi il quadro della produzione finora attribuitagli le Aprobaciones che figurano nei Preliminares di varie opere sottoposte alla sua censura fra il 1615 e il 1630.
Appare stranamente esigua la bibliografia critica relativa a questa interessante figura di statista e di scrittore, su cui grava da vari decenni un giudizio negativo espresso da Américo Castro con l’abituale foga polemica ma con inconsueta parzialità109. L’illustre storico riteneva che la «ignorancia» degli avvenimenti, unita ad una «candidez racionalista», avrebbe portato P. Fernández Navarrete ad una interpretazione tendenziosa della realtà ispanica, analizzata secondo i modelli esistenziali impostisi nella casta dominante (casta ovviamente «única», dopo l’espulsione delle altre). Simile al cervantino «loco de la casa del Nuncio», egli avrebbe confuso la realtà con il suo sogno utopico, proponendo —72→ un progetto riformistico di carattere meramente restaurativo. Con tutti i limiti che in effetti può rivelare il pensiero politico di P. Fernández Navarrete, il giudizio espresso da A. Castro esige una riflessione anche di carattere metodologico, poiché estrapolando alcuni passi da contesti più vasti è facile deformare la prospettiva di un autore e attribuirgli opinioni tendenziose.
Per esempio, il Discurso XLVI («A lo que ayudaría también reformar algunos estudios de gramática») individua con molto acume le conseguenze nefaste della disoccupazione intellettuale prodotta dall’eccessivo affollamento delle scuole di «gramática» (oggi si chiamerebbero Facoltá di Lettere), ed auspica una rigorosa riforma di tali studi, troppo rilassati e non più in grado di garantire a tutti lo sbocco professionale desiderato. Si trata indubbiamente di una denuncia coraggiosa e chiara, almerio nella sostanza, costellata però di rilievi secondari talora discutibili e perfino strampalati, come certe stravaganze etimologiche («Minerva quasi minuens nervos»), o come la nostalgica allusione ad una Spagna bellicosa e fiera, «ruda y falta de letras», tutta proiettata nello sforzo di «echar de sí el pesado yugo de los sarracenos». Questi particolari non possono venir assunti, per estensione, a testimonianza di una posizione ideologica reazionaria, senza il pericolo di disconoscere gli aspetti positivi, in realtà assai consistenti, e la ricchezza di sfumature, in realtà assai apprezzabile, della critica di P. Fernández de Navarrete alle istituzioni. Né si può correttamente ammettere solo alla fine della ultima nota dedicata all’autore110, che «La obra de Fernández de Navarrete debería ser meditada por cuantos entienden en el gobierno de los pueblos hispano-portugueses».
Perfino le notizie biografiche relative a Pedro Fernández de Navarrete sono assai limitate; il più consistente tentativo di esplorazione degli archivi si riduce alla scarna documentazione raccolta da Cristóbal Pérez Pastor111, che nei riportare alcuni dati sulla prima stampa della Carta de Lelio Peregrino... fornisce anche tre Notas biográficas di qualche interesse, la prima relativa a una procura del domenicano Alonso Navarrete al fratello Pedro per l’incasso presso la tesorería reale di una somma destinata ad un gruppo di missionari in partenza per le Filippine, e le altre due relative al testamento ed all’atto di morte dello stesso Pedro Fernández de Navarrete:
—73→«a.- Poder de Fr. Alonso Navarrete, dominico residente en la corte, a su hermano el Lic. Pedro Fernández Navarrete, canónigo de Santiago y capellán de S.M. para cobrar de Diego de Vergara Gaviria, receptor de S.M., 135 ducados que S.M. manda se le den para llevar 30 religiosos a Filipinas. Madrid, 20 de marzo de 1609 (Juan Sánchez, 1608-9, p. 91).
b.- Testamento del Lic. Pedro Fernández Navarrete. Madrid, 21 de marzo de 1628. (Diego Ruiz de Tapia, 1628, Iº).
c.- Partida de defunción: 1632, marzo 13. «El Licenciado Pedro Fernández Navarrete, Secretario del Serenissimo Infante Cardenal, Canónigo de Santiago... hizo testamento, y se mandó enterrar en Santo Tomás...» (Arch. parroquial de San Martín).
Ma queste scarne note si possono arricchire almeno per cuanto riguarda le prime esperienze letterarie dell’autore, che possono anche essere illustrate concretamente con l’appoggio di testi inediti. Innanzitutto qualche altro dato, concernente la formazione giovanile di Pedro Fernández de Navarrete, può essere reperito proprio all’inizio dell’epistola poetica di Cristóbal de Mesa, dalla quale risulta che il destinatario aveva trascorso un periodo della propria esistenza a Roma:
Ammettendo che il computo di Mesa sia esatto, come di solito è dato di verificare, e che il testo sia stato composto alla fine del primo decennio del sec.XVII (cioè un po’prima del 1611, data della stampa madrilena), il ventennio indicato nell’esordio riporta verso il 1590, giusto gli anni a cui Mesa suole riferirsi con esplicite allusioni nelle numerose evocazioni del proprio soggiorno romano112. L’epistola delle Rimas riferisce dunque un insieme di particolari che s’incastrano perfettamente con quelli desumibili da altri versi dello stesso autore; e dalla collazione testuale si è visto emergere un fitto tessuto di relazioni letterarie fra numerosi poeti «in erba» e un saldo vincolo di amicizia e di ammirazione che li univa al Tasso113.
—75→Il dato più consistente che spicca dai versi citati sopra riguarda il legame di dipendenza che vincolava P. Fernández de Navarrete al Cardinal Ascanio Colonna e quello più generico, ma sempre significativo, che lo vincolava a una triade ilustre, il cardinale Scipione Gonzaga, il conte Pomponio Torelli e soprattutto il maestro comune, Torquato Tasso. Anche per le notizie relative a questi eminenti personaggi della cultura romana di fine secolo si rinvia ad indagini anteriori114, ricordando solo che Ascanio Colonna, figlio di Marcantonio, il trionfatore di Lepanto, si era formato in Spagna, alle Università di Salamanca e di Alcalá de Henares, ed aveva ricevuto il cappello cardinalizio nel 1586. I suoi contatti con P. Fernández de Navarrete possono dunque essere iniziati proprio in quegli ambienti accademici castigliani (e più specificamente in Alcalá de Henares, come si vedrá confermato attraverso altre allusioni); l’amicizia dovette presto originare il rapporto di dipendenza. Ma un altro dato di notevole importanza riferito da Mesa riguarda l’opera creativa del «docto secretario» Fernández de Navarrete, che brillava nella cerchia dei letterati della curia papale non solo per le sue profonde conoscenze, ma anche per un’apprezzata produzione, sulla quale occorre compiere un’indagine, non fosse altro che per sottrarla all’oblio in cui è caduta.
Un presupposto da scontare concerne l’attendibilità delle testimonianze di Mesa. Conviene subito precisare che i riferimenti storici ricavabili dal contesto poetico delle sue Rimas sono quasi tutti confermati da testimonianze esterne. Nel caso specifico, oltre a quanto già detto, si possono rinvenire le prove del soggiorno romano di Baltasar de Escobar, segretario di don Enrique de Guzmán, conte di Olivares, ambasciatore spagnolo presso la corte papale, poi viceré di Sicilia e in seguito di Napoli115. Il legame fra Alessandro Guarnelli e il cardinal Alessandro Farnese è confermato dal sonetto del Tasso: «Per te di novo la pietate e l’armi», e in particolare dalla didascalia che lo precede: «Loa il S.r Alessandro Guarnello, traduttore de l’ Eneida di Virgilio, paragonando l’opera sua con quelle de’Greci, et il Cardinale Farnese suo Sig.re con Augusto»116. Può essere documentata senza difficoltà la coincidenza di due ambasciatori spagnoli presso la corte papale nella primavera del 1592, uno itinerante, don Lorenzo Suárez de Figueroa, duca de Feria, l’altro di nomina —76→ recente, don Antonio de Cardona y Córdoba, duca de Sesa y Soma, subentrato al conte di Olivares117. L’attività poetica di un folto gruppo di spagnoli residenti in Roma verso il 1590-91 viene attestata anche da due interessanti raccolte di rime sacre, dovute al fervido proselitismo dei padri della Minerva, e in particolare di Juan Bru de la Madalena:
-Obras spirituales de diversos en prosa y en verso en el día y fiesta de S. María Madalena... En Roma, en la estampa de Domingo Basa. 1591.
-Excellentias de Santa María Madalena recogidas de la fiesta que le hizo en Roma el P. F. Joan Bru de la Madalena su siervo el año de MDXCI... En Roma, en la stampa de Bartholomeo Bonfandino. 1591.
Fra la numerosa collaborazioni vi spiccano le liriche di Baltasar de Escobar, Miguel López de Aguirre, Antonio de la Parra, Lucas López de Villareal, Antonio de Oquendo e infine Pedro Fernández de Navarrete, per citare solo i nomi più significativi118.
Ecco dunque una prima conferma concreta di esperienze poetiche compiute in anni giovanili dall’illustre statista a cui Cristóbal de Mesa dirigeva l’accorato rimpianto. Proprio le Excellentias... consentono il ricupero, non certo eccezionale, di due testi di fattura apprezzabile:
-Sátira del licenciado Pedro Fernández de Navarrete: «Si mi satiricante pluma el filo / contra el ingrato sisador tuviera...» (ff - 58-61).
-Égloga del licenciado Pedro Fernández de Navarrete: «A la falda de un monte, en un collado, / antes que huviese la esmaltada aurora...» (ff. 74-77).
Ma una silloge assai più consistente di testi attribuiti al «docto Navarrete», una quarantina di sonetti, è reperibile poi in una fonte inedita di considerevole importanza, un Cancionero dell’inizio del sec.XVII, appartenente alla Biblioteca dell’Accademia dei Lincei di Roma (fondo Corsini nº 970, Coll. 44-A-21). Manoscritto dalla grafia chiara ed elegante, cartaceo, misura mm.205 x 148, consta di carte II + 271 + 1 (di cui 270 utili), e reca nel frontespizio (f.II r) il seguente titolo, di mano moderna: Raccolta / Di / Varie Poesie / in / Lingua Spagnuola. Ma la raccolta vera e propria si arresta al f. 195 r., poiché dal f. 195 v. al f. 270 v. compare una Traductión / de los libros de Ovi- / dio de arte a- / mandi («Si —77→ alguno en este pueblo es ignorante / del arte del amor, mi verso lea...»)119.
Il Cancionero corsiniano, per la qualità e il numero dei testi che raccoglie, si può collocare fra le più ricche sillogi manoscritte del primo Seicento; ne aveva dato notizia, in modo assai vago, Marcelino Menéndez y Pelayo in una delle sue Cartas de Roma120. La prima testimonianza del canzoniere, che ha per titolo La uida de los pícaros / de Liñan («Como diestro cosmógrapho que raia / los estadios, distancias, passos, millas»), fu utilizzata da Adolfo Bonilla y San Martín nell’edizione critica di quel poemetto121, costituita sulla base di quattro redazioni distinte, le cui varianti appaiono nell’aparato (dove C indica per l’appunto il nostro manoscritto). Un’altra testimonianza dello stesso florilegio, la Carta de la corte de Roma di Baltasar de Escobar («Corren, Señor Abad, los años nuebe / y la fortuna, que nos traxo a Roma...») è già stata utilizzata dallo scrivente122.
I sonetti attribuiti a Pedro Fernández de Navarrete vi compaiono accanto a testi di Pedro Liñán de Riaza, Luis Gaytán, il padre Tablares, fray Melchor de la Serna, ed altri minori, tra cui un Diego Navarrete (ff. 63r - 69r) che potrebbe essere parente del nostro. Molte liriche figurano adespote, pur essendo in alcuni casi di sicura attribuzione (Hernando de Acuña, Francisco de Figueroa, ecc.); alcuni degli autori menzionati gravitarono nell’orbita della Curia papale o trascorsero lunghi soggiorni in Italia con funzioni diverse (servizio militare, impiego —78→ di segreteria o altre mansioni cortigiane), tanto che dal punto di vista socio-letterario l’antologia non manca di una specifica coerenza, e merita anche sotto questo aspetto uno studio particolareggiato.
Ai sonetti di Pedro Fernández de Navarrete s’impone per la loro stessa natura la classificazione canonica (amorosi, sacri, di circostanza) che riflette gli orientamenti comuni a gran parte della lirica del tardo Rinascimento. Mancando precisi termini interni di datazione, sembra possible proporre solo una generica ipotesi di sviluppo cronologico, attribuendo in linea di massima i primi, per il loro costante riferimento ad Alcalá de Henares o a luoghi limitrofi, all’ epoca della formazione universitaria del «licenciado», quelli refigiosi e spirituali per lo più al tempo del soggiorno romano, come del resto sembra confermare la breve raccolta già menzionata delle Excellentias... Gli altri andranno ricondotti di volta in volta alle specifiche occasioni da cui furono originati. Si seguirá comunque, almeno per il momento, l’ordine in cui sono documentati dal manoscritto, che potrebbe riflettere l’ordine dell’autografo o del l’antigrafo.
In linea generale si può sottolineare uno sfruttamento manieristico del codice poetico petrarchesco nei sonetti amorosi; un’adesione altrettanto elaborata ai miti e agli schemi della finzione pastorale si rivela poi nei sonetti bucolici, spesso accoppiati attraverso l’espediente delle risposte «per le rime»; i sonetti religiosi, che presumibilmente sono i più tardivi, mostrano già la presenza rilevante di concettismi compiaciuti e di ricercatezze retoriche.
Ma una suddivisione eccessivamente schematica non giova sempre alla comprensione del testo, poiché introduce compartimenti rigidi che non trovano riscontro nella realtà poetica. Il sonetto iniziale potrebbe provarlo concretamente. Qui infatti l’immagine d’apertura sfrutta una formula ricorrente nella lirica amorosa (sia aulica che popolare); basti come esempio il rinvio a Luis Barahona de Soto, «Vuelve esos ojos que en mi daño han sido...»; Rodrigo de Robles Carvajal, «Vuelve, enemiga, la serena frente...»; Álvaro de Alarcón, «Vuelve las sacras luces a mi llanto...»; Anónimo del Cancionero Musical de Medinaceli, «Vuelve tus claros ojos...», ecc. Il sonetto allude però alla rivolta delle Fiandre, ormai quasi domata (v. 9); dovrebbe quindi essere posteriore al 1579 (patto di Arras) e anteriore al 1585, in cui viene espugnata Anversa dal generale Alessandro Farnese (Roma 1545 - Arras 1592), a conclusione di una serie di campagne militari travolgenti. I vv. 3 e 4 alludono probabilmente alle vittorie spagnole di Malines, Villebruk, Courtrai, Maestricht, Oudenarde, e alla riconquista delle principali città fiamminghe —79→ (1575-1583). I vv. 5 e 6 si riferiscono perciò ad Alesandro Farnese, che peraltro era nipote e non genero di Filippo II, in quanto figlio di Ottaviano Farnese e di Margherita d’Austria (o di Parma), figlia illegittima di Carlo V. Tuttavia anche attraverso il suo legame matrimoniale con doña María di Portogallo, figlia di don Duarte (fratello del re Juan III), Alessandro Farnese risultava imparentato (non però genero, in senso stretto) con Filippo II, che in prime nozze aveva sposato l’infanta portoghese donna Maria Manuela (figlia del re João II). I son. II e III sono collegati strettamente, e pur non portando alcuna indicazione di paternità, sono attribuibili a Pedro Fernández de Navarrete per la posizione che occupano nel manoscritto (per questo motivo si considera attendibile l’attribuzione allo stesso autore dei sonetti X, XI, XIX, XL, che peraltro risultano imparentati con gli altri anche da concreti rapporti interni). Nel son. II si esaltano le stigmate di S. Francesco; il verso finale rappresenta lo sfruttamento «a lo divino» di un’espressione allusiva utilizzata paremiologicamente in contesti molto differenti. La banalità lessicale sembra riscattata da un incipiente impegno concettistico. Il son. III rappresenta uno sviluppo del precedente, esasperandone il motivo principale con compiacimento retorico (si vela la doppia «derivatio» della conclusione). Il tema conobbe una diffusione di «tipo tradicional», con ripercussioni in ambito colto, come testimoniano, fra tante, le glosas raccolte da Damián de Vegas123 a commento della seguente redondilla «ajena»:
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Il rifiuto della memoria dolente si esprime nel son. IV ricorrendo nelle quartine a strutture enfatiche tipiche del petrarchismo manieristico. L’archetipo di questa tradizione si trova nel son. CCLXXIV del Canzoniere, «Datemi pace, o duri miei pensieri: / non basta ben ch’Amor, fortuna e morte...», ma non è da escludere la mediazione di J. Boscán, «Dejadme en paz, ¡o duros pensamientos! / Básteos el daño y la vergüenza hecha...». Le terzine si stemperano invece in reminescenze idilliche favorite dall’evocazione paesistica.
Un’antitesi ampiamente dibattuta dalla poesia cancioneril ricompare nel son. V, dove muerte e vida si oppongono ai vari livelli che la polisemia —80→ consente. L’impianto enfatico e le aspre invettive di VI richiamano il sonetto della gelosia attribuito a Garcilaso (XXXIX, «¡Oh celos, de amor terrible freno...!»), che insieme al sonetto di Lomas Cantoral «O celos de amadores duro freno» ed all’anonimo «Celos de amor horrible y duro freno» del Cancionero General de 1554, ha una nota fonte sannazariana («O gelosia d’amanti orribil freno...»)124.
Molto scorretto, e a tratti irrecuperabile, risulta il son. VII, che per l’allusione del v. 5 pare ascrivibile all’epoca della formazione universitaria in Alcalá de Henares. L’interpretazione suscita molti dubbi; equivoca non è solo la rima dei vv. 2-3, ma anche la significazione profonda. Dall’insieme traspare un’aspirazione catartica, anche se rimane ambigua la via che dovrebbe condurre alla liberazione dalla «prigionia». Le terzine, e in particolare i versi conclusivi implicano il concetto cristiano del riscatto dalla colpa.
Anche il son. VIII sovrappone due codici poetici distinti, quello petrarchesco e quello pastoril, secondo un procedimiento intensamente praticato dalla Diana di Montemayor in poi. L’organizzazione anaforica predominante collega questo sonetto al filone petrarcheggiante (ma con ascendenze virgiliane ed oraziane) delle antitesi fra situazioni (geografiche, psicologiche, ecc.) estreme; cfr. il son. CXLV del Canzoniere, «Pommi ove il sole occide i fiori e l’erba...»125; fra le varianti spagnole di maggior interesse sembra opportuno menzionare, come probabili intermediari, il sonetto di Don Diego Hurtado de Mendoza «Ora en la dulce ciencia embebecido...» e quello di Gregorio Silvestre «Ahora me derribe la fortuna...». L’identità di Clarinda rimane celata dalla finzione bucolica. La lunga lista di coppie «pastoriles» cinquecentesche (Salicio-Galatea, Nemoroso-Elisa, Melibeo-Marfiria, Vandalio-Dórida, Silvano-Silvia, Damón-Galatea, ecc.) si arricchisce dunque di una nuova testimonianza.
Una risposta per le rime segue nel son. XI, che anzi complica l’artificio iterando l’intera parola finale di ogni verso. L’abilità (ammesso che così si voglia definire uno sforzo a tratti faticoso) sembra consistere soprattutto nell’evitare la banale ripetizione delle immagini nella rigorosa corrispondenza delle singole componenti dei due sonetti.
—81→Analoga convenzione metrica collega i son. X e XI, con forzature espressive talora stucchevoli. Vi si continua la sovrapposizione di codici letterari eterogenei, poiché la alabanza delle qualità ineffabili della persona amata mostra echi un po’ sbiaditi della lode stilnovista e petrarchesca, ma si configura attraverso lo scambio poetico fra Menandro e Clarinda, la coppia «pastoril» già menzionata.
Il procedimiento si ripete nei son. XII e XIII, dove tuttavia la consonanza delle rime non allude più all’armonia di una relazione amorosa, bensì alle affinità spirituali di un sodalizio antico. La finzione bucolica, altrettanto impenetrabile, cela ovviamente qualche evocazione autobiografica di un época giovanile ormai lontana, probabilmente gli anni universitari salmantini. Se Menandro è il poeta stesso, dietro il nome di Bireno o di Siralvo (o forse di Lisardo, che compare nei son. XIX e XX) si potrebbe celare Ascanio Colonna. La formula dell’esordio di Bireno ricalca quella di Diego Hurtado de Mendoza (un poeta evidentemente molto caro a Fernández Navarrete), «Tiempo fue ya que amor no me trataba».
L’occasione del son. XIV viene espressa dalla didascalia. Destinataria non è ovviamente la celebre poetessa, figlia di Frabrizio, Connestabile di Napoli, bensì l’omonima, figlia di Marcantonio, l’eroe di Lepanto, dal 1577 vicerè di Sicilia (morto a Madrid nel 1584), e di Felicia Orsini; era quindi sorella del Cardinale Ascanio, protettore di Pedro Fernández de Navarrete: andò sposa a Don Luis Enríquez de Cabrera y Mendoza, duca di Medina de Rioseco, 8º Almirante Mayor di Castiglia, da cui ebbe due figli, Juan Alonso Enríquez de Cabrera y Colonna, erede del titolo, e Ana Enríquez de Cabrera y Colonna.
Secondo il gusto del petrarchismo cinquecentesco, il son. XV instaura un sistema complesso di correlazioni plurimembri; per quanto riguarda gli esordi spagnoli, si potrà ricordare Gutierre de Cetina («Si son nieve, oro, perlas y corales...», nel son. «Si tantas partes hay por vuestra parte...»), da collegare naturalmente al suo modello italiano, l’Ariosto («Son di coraffi, perle, avorio e latte...», nel son. «Se senza fin son le cagion ch’io v’ami...»), secondo l’attenta indagine di D. Alonso126.
—82→Un sonetto di circostanza è anche il XVI, contro un frate che si può identificare, grazie alle perspicaci ricerche di J.L. Gotor, con «el Frayle Benito», ossia fray Melchor de la Serna127.
Nel son. XVII viene inaugurata una riflessione spirituale, attraverso la rassegna di valori contrapposti personificati da due figure femminili embiematiche. Per il culto della Maddalena, si veda anche la precedente nota 118128 e le notizie a cui si riferisce.
Il son. XVIII potrebbe essere incluso nella serie bucolica De Clarinda a Menandro, già esaminata, ma non è provvisto di alcuna didascalia giustificatoria nè di risposta parallelistica. Per la formula dell’ esordio, si vedano le osservazioni al son. I. Anche i son. XIX e XX sono collegabili alle allegorie bucoliche già esaminate; non è facile individuare il compagno di gioventù celato sotto il nome di Lisardo, che pare destinato a rilevanti imprese belliche (allusione forse alla spedizione del’ Invincible Armada?) e a missioni importanti a Roma; niente esclude che si tratti dello stesso amico e protettore Ascanio Colonna. Certo alia corte papale molti spagnoli potevano vedere riversarsi in quei momenti la cornucopia dell’abbondanza!
Il son. XXI include uno sviluppo interessante della metafora petrarchesca della navigazione perigliosa nel mate delle passioni, che tanta fortuna ha conosciuto nella poesia castigliana, da J. Boscán in poi129.
Il son. XXII, maigrado il guasto testuale, è costruito secondo il sistema dei versi «cum auctoritate», che si diffusero in area romanza soprattutto a partire dal sec. XII (ma con antecedenti alessandrini di rilievo) e giunsero alla lirica rinascimentale sia attraverso il petrarchismo (Garcilaso, son. XXII, «Con ansia estrema de mirar qué tiene...», con citazione finale di un verso del Petrarca), sia attraverso gli stessi Cancioneros castigliani130. La citazione evangelica serve ovviamente a —83→ porre in evidenza il significato spirituale che il poeta vuole attribuire all’evocazione.
La stessa tecnica viene esasperata nel son. XXIII, che, come annota la didascalia, giustappone (in modo non sempre brillante) i capoversi di testi molto eterogenei, di autori noti ed anonimi; solitamente l’incipit è riportato con esattezza, ma talora viene lievemente modificato per adattarsi ad una minima connessione logica con gli altri. Le citas illustri vanno dall’Epistola I del Lib. III di Boscán (v. 13), alla canzone IV e al son. XV di Garcilaso (vv. 11 e 12), a una lirica di Francisco de Figueroa (v. 6), alle terzine del Lib. III della Diana di Montemayor (v. 7), ecc.; fra i romances, sono leggermente deformati «Dardanio con el cuento de un cayado» (v. 3), apparso nel Cancionero llamado Recreo de Amadores, por Pedro Hurtado, Valencia, 1569, nº 20, e «Hero del alta torre do mirava» (v. 4), nel Cancionero General, Anversa, 1557, f. CCCC, e nel Cancionero llamado Flor de Enamorados, Barcelona, 1562, nº 134.
Nei son. XXIV e XXV si ripete l’esperienza della glosa poetica, con l’inserimento finale di una stessa espressione che sancisce in termini paremiologici l’ampio dibattito sul tema dell’ illusione fugace. Per entrambi i sonetti si possono segnalare riferimenti testuali interessanti sul doppio piano tematico e stilistico: da un lato, un filone procedente dal Bembo («Sogno che dolcemente ma hai furato...»), attraverso J. Boscán («Dulce soñar y dulce congojarme...») Cetina («Ay, sabrosa ilusión, sueño suave...») nonché («Ay, falso burlador, sabroso sueño...»), J. de Montemayor («Oh dulce sueño, dulce fantasía...») e Lomas Cantoral («Oh dulce sueño, oh dulce acertamiento...»), e dall’altro una linea di sviluppo tradizionale che risale alla Canzone I di Ausias March («Axí com cell qui.n lo somni.s delita...») e viene approfondita in particolare dallo stesso Boscán («Como aquel que en soñar gusto recibe...») e da Diego Hurtado de Mendoza («Como el hombre que huelga de soñar...»).
Aggregandosi idealmente ai due anteriori, il son. XXVI riprende la meditazione amareggiata sulla vana evasione mentale dai ristretti contorni della realtà; la stessa canzone di Ausias March, st. III («Plagués a Déu que mon pensar fos mort...») si può considerare all’origine di una complessa serie di riflessioni poetiche affini, da J. Boscán («Oh si acabase —84→ mi pensar sus días...») a Diego Hurtado de Mendoza («Si fuese muerto ya mi pensamiento...»), a Herrera («Pensé, mas fue engañoso pensamiento...»), Pedro Laynez (« Peligroso atrevido pensamiento...»), per giungere poi fino a Lope de Vega («Dulce, atrevido pensamiento loco...»), a Góngora («Dulce contemplación del pensamiento...») e ben oltre.
L’esordio del son. XXVII s’ispira ad una formula ottativa di stampo bucolico; ma il faticoso sviluppo della seconda quartina el’antitesis stentata delle due terzine rivelano un impaccio formale nell’adattamento degli schemi tradizionali.
Nel son. XXVIII si percepisce un’eco vaga delle evocazioni petrarchesche del paesaggio delineato intorno alla figura de Laura (cfr. particolarmente il son. CCXLIII «Fresco, ombroso, fiorito e verde colle...»), ma si tratta ormai di un esordio manieristico.
Il son. XXIX ripropone con minime varianti grafiche il IV, e probabilmente la sbadataggine deve essere imputata al copista; comunque vengono eliminati ora alcuni errori della trascrizione precedente.
Il son XXX sovrappone gli artifici concettistici propri dei Cancioneros alla contemplazione estatica della bellezza della donna amata, complicando formalmente la tipica rassegna petrarcheggiante di particolari decantati di ogni attributo concreto (belle mani, bel corpo, dolce viso, ecc.).
Il son. XXXI si pone in evidenza per la rigorosa disposizione anaforica delle quartine e per l’estensione complessa dell’unico periodo, dalla costruzione sintattica abilmente rapportata alle strutture metriche. Anche le rime equivoche ne rilevano l’artificiosità. Le opposizioni dei tipo guerra-pace, tristeza-allegria, via lunga e pericolosa-cammino sicuro e piano, note-giorno, sono facilmente riconducibili alle antitesi che compaiono per es. nel Canzoniere petrarchesco, son. CXXXIV «Pace non trovo e non ho da far guerra».
Nel son. XXXII vengono a loro volta contraposti, con un gioco di parole non molto felice, i sospiri d’amore e l’estremo «sospiro» esalato dall’anima, in un’ulteriore svolgimento dell’abusato scambio cancioneril tra vita e morte.
Il son. XXXIII appartiene alla serie bucolica, pur mancando di espliciti —85→ riferimenti al destinatario. La prima terzina risulta oscura, ma il testo sembra corrotto.
Il son. XXXIV trasfigura in termini scanzonati e picareschi la delicata favola di Endimione, che Gaspar de Aguilar doveva svolgere in agili quintillas e che più tardi Marcelo Díaz Callecerrada avrebbe dilatato prolissamente in tre canti.
Il son. XXXV, per il suo carattere encomiastico, si stacca dalle serie precedenti e va collegato a qualche vicenda biografica che sarebbe da precisare con l’apporto di fonti esterne più esplicite.
Per l’incalzante iterazione anaforica e anche per qualche coincidenza tematica (cfr. per es. v. 3), il son XXXVI si avvicina al son. XCV di Boscán, già citato («Dulce soñar y dulce congojarme...»), senza che si possa peraltro intravvedere l’intenzione di una glosa vera e propria.
Il son. XXXVII sembra prospettare una situazione maliziosa affine a quella del son XXII di Garcilaso («Con ansia estrema de mirar qué tiene...»), ma la risolve con la solennità ostentata di un gesto rituale. Invece nel son. XXXVIII, abbandonata ormai la malinconica vena elegiaca, prende forma attraverso il dialogo concitato e drammatico con la morte, il tema del desengaño e della rinuncia, che acquista nei testi seguenti una fisionomia mistica più marcata. Infatti i son. XXXIX-XLII, omogenei e coerenti nel loro siancio trascendente, rivolgono un’accorata invocazione di conforto all’amore divino, a cui aspira ormai l’anima delusa dagli affetti terreni. La vena spiritualistica di questo gruppo è confermata poi dall’ Égloga «a lo divino» (XLIV), che evoca l’incontro fra il Cristo e la Maddalena, dopo la Resurrezione, e in parte anche dalla Sátira contro Giuda Iscariota (XLIII), dove tuttavia predominano gli stilemi dell’invettiva sarcastica.
I quattro sonetti della Resurrezione non sono attribuibili a Pedro Fernández de Navarrete se le abbreviazioni nella didascalia del f.99v. devono intendersi (come tutto fa ritenere) la sigla dell’autore; e poiché al f. 16r. compariva una Carta general de amor de Gaetán («Camilla, porque se vea / en quán diuersos sabores...»), si può avanzare l’ipotesi che il Gaetán della Carta e il non meglio identificato L.G. dei sonetti in questione siano la stessa persona, vale e dire il toledano Luis Gaytán, già noto soprattutto come traduttore del Giraldi Cinzio131. Comunque i —86→ quattro sonetti sono qui riprodotti in appendice al corpus poetico esaminato, a titolo comparativo.
Una rassegna cosi sommaria non ha certo pretese di completezza, ma aspira soprattutto a rilevare le coordinate culturali e stilistiche da cui è definita l’esperienza poetica di Pedro Fernández de Navarrete; se ne può dedurre che il campionario inedito trasmesso dal manoscritto corsiniano è collocabile dignitosamente nella più illustre tradizione della lirica spagnola del tardo Rinascimento, e merita quanto meno una menzione per l’elaboratezza delle scelte.
Nella riproduzione dei testi sono stati mantenuti gli arcaismi e le oscillazioni degli usi grafici, poiché la loro fenomenologia potrebbe risultare utile ad una ricerca specifica; sono state conservate anche le contaminazioni fra le abitudini della scripta ispanica e le consuetudini italiana, che lasciano intravvedere una probabile esecuzione italiana della raccolta. Solo in casi di un possibile equivoco d’interpretazione si è preferito effettuare un restauro. Gli errori corretti e i mutamenti suggeriti vengono giustificati nell’apparato, e così pure le ragioni di ogni altro intervento o semplicemente le proposte di emendamento. Le integrazioni compiute sono indicate dalla parentesi quadra, le espunzioni dalla parentesi rotonda. Con la sigla C verrà designato il manoscrito 970 del fondo Corsini della Biblioteca dei Lincei, con la sigla E il testo delle Excellentias... menzionato sopra.
- I - (C.f. 80r.) Soneto de P[edr]o Navarrete
3. ms. despoios; 4. ms. enrequecido; 5. ms. braco; 8. ms. luguar, 9. ms. tu ues. |
- II - (C.ff. 80v.) 81r. Soneto a S. Fr[ancis]co
13. ms. pano; 14. ms. saial. |
- III - (C.ff. 81r. - 81v.) Soneto al mesmo S[anc]to
12. ms. senal. |
- IV - (C. ff. 81v. - 82r.) Soneto de P[edro] N[avarrete]
7. ms. enlacado; 13. ms. ajudo. |
- V - (C. ff. 82r. - 82v.) Soneto de P[edr]o N[avarre]te
8. nel ms. la seconda sillaba soprascritta; 11. ms. meior; 14. ms. dana. |
- VI - (C. ff. 82v. - 83r.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te
3. ms. discretos; 6. ms. prende; 9. ms. ponconosa; 10. ms. danos; 14. ms. tenga. |
—90→
- VII - (C. ff. 83r. - 83v.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te
1. ms. pierna; 8. erronea ripetizione del v. 4; 11. ms. meiora...tuios. |
- VIII - (C. ff. 83v. - 84r.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te De Menandro a Clarinda
7. ms. ciesta; 8. ms. emplaticas. |
- IX - (C. f. 84r.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te En respuesta de Clarinda a Menandro
11. ms. el todo. |
- X - (C. f. 84v.) Soneto a Clarinda
7. ms. fee; 13. ms. mussas. |
- XI - (C. ff. 84v. - 85r.) Soneto de Clarinda
4. ms. afrara; 9. ms. Y se; 11. ms. Appollo; 12. ms. obiecto. |
- XII - (C. ff. 85r. - 85v.) Soneto de P[edr]o N[avarret]e De Bireno a Menandro
14. ms. soi. |
- XIII - (C. ff. 85v. - 86r.) Soneto del dicho en re[s]p[ues]ta
8. ms. que huie. |
—94→
- XIV - (C. ff. 86r. - 86v.) Soneto de P[edr]o N[avarret]e al casam[ient]o de la S[eño]ra Dona Vitoria Colona
|
- XV - (C. ff 86v. - 87r.) Soneto de P[edr]o N[avarret]e
5. ms. cauollo... dimi; 6. ms. ceyas; 9. ms. quen oyr; 14. ms.maxillas. |
- XVI - (C. ff. 87v.) Soneto de P[edr]o Nau[arre]te
9. ms. Has. |
- XVII - (C. ff. 87v. - 88r.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te
4. ms. Madelena; 7-8. lacuna nel ms., che salda per errore: «si P. prende libra M. adoro». |
- XVIII - (C. ff. 88r. - 88v.) Soneto de P[edr]o Na[varre]te
[De Clarinda a Menandro?] 8. ms. cazo. |
- XIX - (C. ff. 88v. - 89r.) Soneto de Menandro a Lysardo
(allusione alla spedizione dell’Invencible?) 9. ms. abbrevia, per errore di lettura, s. ra. |
- XX - (C. ff. 89r. - 89v.) Soneto de Menandro a Lysardo
8. ms. abroyos. |
—98→
- XXI - (C. ff. 89v.) Soneto del mismo a Nuestra Señora de Monsarate
|
- XXII - (C. f. 90r.) Soneto del mesmo
14. ms. cum solo; si restaura la lezione di Mat. 4.4: «Non in solo pane vivit homo». |
—99→
- XXIII - (C. ff. 90r. - 90v.) Soneto del mismo. De principios
3. ms. quanto; 7. ms. desermado; 13. ms. senti. |
- XXIV - (C. ff. 90v. - 91r.) Soneto del mesmo. Glosa
5. ms. aquesta. |
- XXV - (C. ff. 91r. - 91v.) Soneto del mesmo. A la mesma Letra. Glossa
11. ms. passadilla. |
- XXVI - (C. ff. 91v. - 92r.) Soneto del mesmo
|
- XXVII - (C. ff. 92r. - 92v.) Soneto del mesmo
6. ms. legos; 12. ms.amador (per attrazione dal v. 10). |
- XXVIII - (C. f. 92v.) Soneto del mesmo
3. ms. del; 9. ms. solos. |
- XXIX - (C. ff. 92v. - 93r.) Soneto del mesmo
[ripete il nº VI, con minime varianti] 10. ms. dano; 14. cfr. VI, 14. presto. |
—103→
- XXX - (C. ff. 93r. - 93v.) Soneto del mesmo
|
- XXXI - (C. ff. 93v. - 94r.) Soneto del mesmo a la ausencia
11. ms. uio; 12. ms.suio. |
—104→
- XXXII - (C. ff. 94r. - 94v.) Soneto del mesmo a los suspiros
4. ms. seyo; 6. ms. senalen; 12. ipometro, anche ammettendo che in haré l’h primaria si opponga alla sinalefe; forse haré [yo]. |
- XXXIII - (C. ff. 94v. - 95r.) Soneto del mesmo
10. il verso scorretto rende oscura la terzina. |
- XXXIV - (C. f. 95r.) Soneto del mesmo
2.sol X suelo? cfr. 10; 8. ms. cudais. |
- XXXV - (C. f. 95v.) Soneto al Almirante de Aragón
|
- XXXVI - (C. ff. 95v. - 96r.) Soneto del mismo
13. ms. girnaldas mui. |
- XXXVII - (C. ff. 96r. - 96v.) Soneto a una cayda
|
- XXXVIII - (C. ff. 96v. - 97r.) Soneto a la muerte en dialogo
|
—108→
- XXXIX - (C. ff. 97r. - 97v.) Soneto al Sanctiss[im]o Sacram[en]to
4. ms. auentajado; 11. ms. cuuerte. |
- XIL - (C. ff. 97v. - 98r.) Soneto a Cristo
12. ms. trauayo. |
- XLI - (C. f. 99r.) Soneto de P[edr]o N[avarre]te al amor diuino
|
- XLII - (C. ff. 99r. - 99v.) Soneto del mismo a Cristo
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- XLIII - (E. pp. 58-61) Satira / del Licenciado / Pedro Fernández de Nauarrete
10. E. grunidor; 13. E. comencara; 35 e 37. E. tracas; 36. E.el ungido; 39. E. en lacas; 68. E. coracon; 70. E. na bastara. |
- XLIV - (E. pp. 74 - 77) Egloga / del Licenciado / Pedro Fernández de Nauarrete
7. E. empieca; 9. E. pieca; 27. E. coracon; 28. E. mudanca; 50. E. quica; 78. E. Co., forse alludendo a un coro? Ma con l’invito dei vv. 76-77 è coerente una risposta della Maddalena. |
4 sonetti di dubbia attribuzione - I - (C. ff. 99v. - 100r.) Soneto a la Resurrección de I.g.
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- II - (C. ff. 100r. - 100v.) Soneto a la Resurrección
6. ipometro e lacunoso; forse el [horror] de... |
- III - (C. ff. 100v. - 101r.) Del mismo a la Resurrección
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- IV - (C. ff. 101r. - 101v.) Del mismo a la Resurrección
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